Come ogni essere vivente su questa terra, sono nato innumerevoli volte, ho assunto le forme più diverse, patito ogni possibile passione.
Come tutti gli esseri viventi sono morto. Ripetutamente.
Nascere sempre e morire sempre, non nascere affatto ed essere immortali.
Siamo gli stessi esseri sin dall'alba dei tempi.
Niente, né qui né in altri piani, ha il potere di creare e distruggere, tutto si trasforma da sé.
Fui leone e sciacallo, sono uomo, sarò topo e chissà ancora cos’altro, ma la mia condizione rimarrà sempre, irriducibilmente, precaria: prenderò coscienza di me solo quando non ci sarò e per il fatto che non ci sarò. Così come siamo che viviamo, la saggia storia del mondo, pur dentro di noi, non ci é accessibile, perché l'alito vitale la congela, l'assopisce in un profondo letargo.
Ora soltanto posso rimembrare quando nacqui pulce e dimoravo tra i crini lucenti del leone della Grotta d’Oro sull’Himalaya, la centoquarantatreesima forma in cui il Maestro comparse sulla terra. Magnifico nelle sue movenze da predatore, nelle pause fiere e statuarie tra le canne della pianura, nel mentre del recupero delle forze dopo uno scatto andato a vuoto. La luce emanata da ogni suo singolo pelo e dalla stessa pelle accecava e tingeva tutt'attorno di bianco, che mi sembrava di saltellare nel nulla. Lì dal Maestro conducevo un'esistenza mite, astemia e timorata, la ricerca di cibo non mi preoccupava e la mia anima era nuda e casta.
Presso la Grotta d'oro, il fulgido leone, aveva uno sciacallo come suo servitore, il quale lo serviva e pure riveriva con devozione sincera, ma che un giorno peccò di superbia, e perciò ne morì. Il Maestro fu a guardarlo, dalla sua grotta, mentre soccombeva lì nella valle sotto le zampe di un elefante, dopo aver tentato di cacciarlo, poiché bramoso dell'adrenalina del potere e dunque non più sazio dei comodi pasti procacciatigli dal leone in cambio del suo servizio. Dinanzi a quello scempio, impassibile l'Illuminato recitò questi versi:
“Si sa già in sé che la morte é l'unica pace,
momentaneo sollievo a questa riffa atroce.
Che il cielo voglia dargli un germe redentore
in unici fugaci attimi di riflessione,
laddove in vita non ne prese concezione”
Noi pulci, zanzare e moscerini, mosche formiche e muffe, tutti ascoltammo l'insegnamento e meditammo, com'era solito dopo che il leone terminava il ruggito rivelatore. Di bocca in bocca il verbo e le parabole si diffondevano e acquistavano santità, il Buddha e la dottrina venivano conosciuti nel mondo.
Nel brusio silenzioso delle declamazioni, salii sino all'enorme anfratto sinistro e feci riecheggiare la mia vocina nella luminosa cavità cartilaginea, interrogando se non avesse il Maestro egli stesso il potere di indirizzare le vite sulla via della rettitudine. E Lui rispose: “Giovane pulce amica mia, rimane comunque, nonostante quasi impercettibile, una flebile lucina sempre accesa, un filino coerente che anima ognuno di voi e lo caratterizza, lo dirige. Nulla é in mio potere, se non il sapere, e in virtù di questo sono giusto e buono. Voi assopiti avete bisogno di credere per agire: sebbene abbia pietà e misericordia di voi, nulla posso e soltanto da voi stessi può partire lo slancio verso il vertice della ruota; altrimenti vi é la pervertita deriva, che moltiplica a non finire le espiazioni, condannando alla sofferenza perpetua del vivere”. Così disse, e dopo aver compiuto atti di generosità e altre buone azioni, quando il suo tempo fu compiuto, raggiunse le regioni celesti.
Ora soltanto posso rimembrare che in quella vita ho avuto il raro privilegio di incontrare il Buddha, che la via verso il Nirvana mi era stata mostrata e stava a me seguirla o meno.
Nato brammano al tempo di Brahmadatta re di Benares, ho avuto in moglie una donna così dolce che le sue urla, un giorno, distrussero l'intera città. Sotto le macerie, vivi per miracolo, tra le lacrime e la polvere mi disse ti amo.
Quando le neonate borse colavano a picco, presi in moglie una donna bellissima, ma sciagurata: l'avevo presa che c'aveva il pallino del femminismo. O, per meglio dire, da un certo momento non le andò più giù che io avessi il pene. Le consigliai come sfogo alle voglie da dominatrice di provare con esperienze lesbo, indossando quelle cinture fornite di protuberanza rigida che uscivano appena sul mercato e che avrebbero avuto enorme successo in seguito, chissà con qualche altra casalinga disperata, moglie di u altro agente di borsa a Wall Street, insoddisfatta e lacerata dalla noia. Ben presto capii che chi voleva inculare ero essenzialmente io.
Al tempo del rientro dei Borboni a Parigi, sono stata una donna che cercava negli uomini comprensione per le difficoltà, sostegno per le precarietà e protezione per i pericoli che questa esistenza porta con sé; son sempre rimasta indifferente all'esteriorità, all'estetica del sentimento amoroso, ho sempre badato alla sostanza. E se avessi continuato così, se non avessi trasgredito con quell'ebano nerboruto marinaio dei Caraibi, solo per la vile libidine, non avrei lasciato la gestione del bordello più rinomato di Marsiglia per crepare di sifilide, tra atroci dolori, in un lazzaretto in mezzo agli appestati.
Sono rinata cattolica una volta. Fervente cattolica. Ma non per questo ho mai disdegnato la compagnia di uno o più uomini, almeno da quando sono venuta a conoscenza di un loro particolare molto simile ai rubinetti e agli ortaggi che tanto mi hanno appagata nell'adolescenza. Un desiderio, quello di possedere gli uomini, rinvigoritosi con il delinearsi meglio delle mie curve, e divenuto insostenibile e ossessivo non appena, con l'immagine pia e inaccessibile che mi sono dipinta addosso, ho notato di essermi tramutata nella preda più ambita dai maschi, fossero essi miei coetanei, padri dei miei coetanei o parroci dei miei coetanei. L'illibatezza sino al matrimonio l'ho aggirata occupando semplicemente le restanti vie d'accesso: spesso nei bagni di locali pubblici ed istituzionali, in orari d'ufficio, o in utilitarie sperdute tra i campi, nei pomeriggi dopo il catechismo. La carne é debole, ma ci si può sentire in colpa più comodamente qualche giorno dopo, durante la confessione. Ai ventiquattro anni mi hanno data in sposa al figlio dell'ex-democristiano più suffragato della circoscrizione; un bel matrimonio, sfarzoso fu il viaggio di nozze. Poi due anni circa di ecchimosi e ricoveri per traumi vari, da giustificare ogni volta con progressiva fantasia per non compromettere me e il padre di lui... fino a che un ragazzetto strafatto di anfentamine non mi ha investito in pieno sulle strisce con il suo Booster privo d'assicurazione, mentre ritornavo a casa dalla messa domenicale. Proprio quando stavo ultimando le pratiche per l'annullamento alla Sacra Rota: lui era impotente e l'unione non s'é consumata. Sono morta vergine lì sulla strada, come la madonna.
Per un breve periodo, non so dove negli innumerevoli posti in cui ho vissuto, ma é certo che fosse in un tempo in cui i costumi e i canoni sessuali rappresentavano la paccottiglia impolverata nascosta nella soffitta della morale, ho frequentato una tipa con una tale carica sessuale che mi addormentavo sempre ancor prima di andarla a prendere; provò a svegliarmi con un pompino una volta... persi il lavoro.
Ho avuto anche una parabola omosessuale, incastonata in una vita fino ad allora, e anche oltre, abbastanza irreprensibile: un flirt un po' controverso con il mio capufficio, in uno dei miei diversi lavori da dipendente scapolo del settore terziario. Mentre mi prendeva da dietro mi implorava pieno di godimento e voluttà di non dirlo a mia madre. E dopo mi faceva pulire pure la scrivania.
Mi capitò di andare con la bidella della mia scuola, la seconda volta che sono stato molto giovane. Ci demmo l'appuntamento alle 18.00, ovviamente lì dove la passione proibita ci sedusse: davanti a scuola. A mia madre giustificai l’uscita con il classico quaderno da restituire al compagno di banco per i compiti dell'indomani. Ricordo di aver atteso il suo arrivo soltanto qualche minuto al freddo gelido stepposo, ma abbastanza per rischiare grosso nel recupero dei miei testicoli acerbi rannicchiatisi oltre i buchini del bacino, cercando di stiracchiare la sacca scrotale accartocciata e sgonfia. A bordo di una Trabant verde militare mi condusse a casa sua, in uno di quei quartieri a cimitero con le palazzine di loculi. Mentre mi spogliava mi confessò che le piaceva farlo davanti alla finestra. Già scombussolato per quella faccenda dei gioielli di famiglia, il mio disagio aumentò di molto in seguito a quell'insolita preferenza, io che ero ancora straniero dei vicoli bui della perversione, e mi rese una molla quando dovetti nascondermi con un guizzo felino dietro le tende, non appena scorsi il mio maestro di storia e studi sociali che scattava foto dal palazzo di fronte.
Sto guardando e passando in rassegna le mie vite a dir poco disordinate, perché é da che fummo violate io, Onfale e le altre dall'empio lidio, che s'é dispiegata la lenta e inesorabile peregrinazione all'indietro. Alla maniera di un sutra che si srotola al vento, le vedo svolgersi frenetiche, eppur limpide. Il disordine e l'insoddisfazione sono state le costanti che, dopo il santo incontro, m'hanno afflitto per le tutte le seguenti tappe della trasmigrazione, che tutt'ora non accennano a lasciarmi in pace e aumentano la loro insistenza, perseguitandomi e pungolandomi per mezzo dell'imperitura frustrazione: la pena, questa nemesi, inflittami, che più vivo e più non riesco a redimermi. Allontanandomi ad ogni giro di ruota, sono arrivato a lambire i limiti della lussuria, e vi ho indugiato così tanto da trasbordarli e perdermi definitivamente alla deriva. Continuo senza sosta nel vizio, ormai irrinunciabile, vitale, che come calamita mi attrae: pure se all'apparenza possa risultare che venga costretto, stride la dubbia casuale puntualità con cui si attuano i miei traviamenti, come quando rinacqui nel più splendido esemplare di alano maschio alla corte del macedone Selenco I, l'unico di tutto l'allevamento a non venire mai ceduto come dono ai regnanti alleati, perché trastullo personale del laido monarca, affascinato dalle dimensioni importanti e dalla suscettibilità spiccata del mio fallo. Una tra le esperienze più umilianti del mio passato.
Abitudine al vizio che porta all'assuefazione, e dunque a spingersi oltre, verso il crimine, andando a saziare impulsi via via sempre piú sotterranei e spaventosi. Una via percorribile potenzialmente da chiunque, se é vero che in una vita, assieme ad un parroco di paese adescavamo quindicenni per la via, per seviziarli e trucidarli, guadagnando milioni col mercato nero degli snuff movies.
Non riconduco le mie disgrazie ad una causa primigenia, individuandola magari nelle infinite delusioni di una vita d'amori, per gli abbandoni subiti nelle cittá piú romantiche, per i tradimenti scoperti, per gli ingoi negati. Nella mia immensa ma estemporanea saggezza ho scoperto quanto siano insulse e prive di senso questo tipo di giustificazioni, o meglio quanto lo sia il giustificarsi stesso: invero, non ci si puó mai pentire di alcunché.
Di provato c'é che gli esseri umani non ho mai saputo come inquadrarli a seconda di come fanno l'amore, forse perchè non prestavo loro molta attenzione: spire tentacolari mi agguantavano per trascinarmi nel miele, accendendomi della più lasciva passione. Sono stato in vita così egocentrico da non preoccuparmi di nient'altro che del mio godimento, arrivando persino ad umiliarmi per questo difetto. Perché, difatti, non sono mai riuscito a negarmi in maniera netta e convincente. Molto spesso é stata quieta acquiescenza verso i peccati che andavo a commettere o subire. Il piacere, il godimento mi coglievano invadendomi e alimentandomi in entrambi i casi, e non ho mai potuto prescindere da ciò. Un incosciente egoista, perché cosciente solo di essere in mezzo ad una massa di egoisti: sarà questa la colpa di cui non riesco a liberarmi?
A quest'ultimo giro, ho pagato a caro prezzo il tentativo di fumarmi un cubano col culo. L'ufficio immigrazioni mi ha beccato al volo.
Il carcere di massima sicurezza mi ha abbrutito; dopo quindici anni di saponette in culo e di piattole in bocca, la prima notte da uomo libero avevo intenzione di passarla a briglie sciolte, a sbronzarmi sino a svenire e magari morire nel mio stesso vomito. In una bettola di periferia sono stato avvicinato da un coiffeur tutt'uno con il suo costumino bondage di pelle, che mi mormorò qualcosa all'orecchio. E son passati in un baleno un paio d'anni, quando inspiegabilmente la fiammella s'é ravvivata di colpo e ho sfiorato per un attimo con le dita quel filinino finissimo di coerenza... mentre cacavo con una corda al collo in faccia a una paralitica sessantenne ricchissima, mi sono sparato un colpo in piena tempia.
Ora é arrivato il momento di andare, il mio break é ultimato e stanno estraendo i numeri...
AUTORE: PRF
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