I
(SAN CASSIANO A POZZO di MORIANO)
All’alba mi destai privo della grazia godereccia che aveva caratterizzato la mia serata precedente.
Lucca era comunque risultata essere una città, di contro alle nostre previsioni, molto, ma molto lontana.
Addentai quel poco di ossigeno rimasto nello stanzone anelando una buona tazza di caffè, senza che però vi fossero tazzine e/o qualcosa di simile, né tantomeno una caffettiera in grado di produrne uno di qualità decente.
Ero stato calpestato per tutta la notte, o quasi.
Misurai i passi nel corridoio, attento a non pestare nel buio la coda al gatto Gaetano, direzione cucina e inconsciamente attento anche ad ogni spigolo sporgente. Qui, di faccia al fornello, la moka fra le mani, il caffè sul cucchiaino risultò tremolante e un po’ impreciso, tanto da buttarne qualche granello innocuo sui baffi di Gaetano che, in risposta, fece: -Miao.
Mentre accendevo il gas mi sorprese un botto profondo, che echeggiò nella valle chiusa dai monti della Garfagnana…sempre che fossimo nella Garfagnana.
Fece il suo ingresso nella cucina un certo Luchino, armato di grossi petardi al grido di “ora vi sfondo il cofano a tutti!”, liberando la sua follia da polvere da sparo sulle innocenti carrozzerie delle nostre autovetture. Un altro botto.
Gaetano era sparito in chissà quale angolo della casa, spaventato.
Ricordo che sfoggiai contro tale Luchino un linguaggio forbito ed elegante in risposta ai suoi ludici e grezzi insulti.
-Pezzo di merda…quelle macchine ci devono riportare a Siena, cazzone!
Luchino scomparve, nella nuvola del suo petardo, per le pieghe scure della valle al mattino.
Il caffè ora gorgogliava come il mio stomaco, mentre Gaetano si ripresentò al mio cospetto nel suo vestito migliore, tutto impettito e orgoglioso, come se avesse cacciato lui quel grande topo che era Luchino.
Versai il nettare nero del risveglio in una specie di tazzina, crepata in ogni lato, a rischio graffio sulle labbra, già tagliate dal freddo della Garfagnana...sempre che fossimo in Garfagnana.
Nel giro di pochi minuti, attirati dall’odore di caffè, si sarebbero alzati tutti e si sarebbero poi radunati in corridoio, in posizione fila per il bagno, aggredendosi a vicenda per il poco caffè rimasto. Nessuna promessa di colazione avrebbe potuto calmare quella folla balorda di bisognosi, nemmeno un nuovo caffè messo su: ci sarebbe voluto troppo tempo. Il risveglio doveva avvenire all’istante, o così o niente.
Mi accesi perciò una sigaretta sul ballatoio, lontano da ciò che si sarebbe creato, catturando tutto il sole possibile che si faceva largo fra gli alberi, fra le nuvolette di fumo dei petardi da poco scoppiati.
-Guarda quanto cielo- pensai.
Ed ero lì, in una posizione di equilibrio fra la luce del mattino e il buio della notte trascorsa, che cominciai a ricordare con maggiore precisione la serata e il viaggio della speranza che ci portò lì, in quel luogo molto probabilmente nemmeno segnalato sulle cartine, non visto dai satelliti.
Siena-Lucca-Lucca-San Cassiano di Moriano, cinque ore e mezza, in auto. Qualcosa che sfiorava il ridicolo e che mi avrebbe di lì in poi messo in eterna guerra contro google map.
Ecco come vedo io la Toscana dal finestrino di un auto: la discontinuità delle strade di collegamento fra un paese e un altro è di una disarmante impossibilità di orientamento per un qualsiasi avventore inesperto del luogo e magari pure non toscano.
La cosa più facile in macchina in Toscana è girare attorno al paese che cerchi senza mai trovarlo.
Questo implica una lunga serie di ‘Chiediamo a quello lì’; tiri giù il finestrino, gli indichi sulla cartina il punto che devi raggiungere ad ogni modo e questo, sospirando e allungando lo sguardo nel vuoto, commenta: -Avete sbagliato tutto…
Ma la strada non te la spiega; troppo complicato.
Riprovi.
Scendi dalla macchina per raggiungere qualcuno.
Il primo che trovi è africano.
Il secondo viene da dove vieni tu.
Il terzo è del posto, ci pensa per un abbondante quarto d’ora e poi ti consegna un biglietto per una nuova indicazione sbagliata.
Ma il bello resta che in tutto questo, al paese che cerchi, ci sei sempre stato incredibilmente vicino.
Sopravvivono leggende millenarie sul fatto che Cristo non si sia affatto fermato a Eboli, bensì a Empoli. Solo una questione di orientamento, colpa del via michelin.
Prendemmo un po’ tutti il sole, allegra e assonnata scorribanda di musicisti, videoamatori, groupies e semplici presenti, appoggiati alle auto in sosta nel parcheggino sotto casa. La dimora era grandissima, proprietà di un certo nonmiricordoilnome, un gigante buono, al quale riconsegnammo un appartamento troppo troppo troppo disordinato per come lo si era trovato.
La sera prima un concerto di tre gruppi, per i quali io dovetti fare dei filmati senza compenso. Quello, il mio compenso, era per me il semplice uscire per un paio di giorni dalla stretta cinta muraria senese.
Tornammo in auto e ci sembrò di non esserne mai scesi.
Il viaggio fu questo turno più breve, circa un’ora e mezza, senza correre troppo e senza perderci nemmeno una volta. Il sole rifletteva i suoi raggi dai finestrini sulle lenti dei miei occhiali, creando strani giochi di luce, mentre io mi occupavo di ritrarre con la telecamera chi dormiva, con canzoni anni ’70 allo stereo. Siena nord ci accolse con il telegiornale radio che dava notizie da Haiti, dopo il terremoto. Dietro a noi, il sole se ne tornava velocemente da dove era venuto.
II
Ritorno a Siena, descrizione: gente in giro meno di zero, attività utili alla sopravvivenza umana aperte, meno di nessuna, tipica contentezza del ritorno a casa da un viaggio qualsiasi, approssimativa.
Sensazioni: stanchezza, tanta tanta tanta stanchezza.
Un paio di giorni dopo, fra le mura domestiche di due giovani compari, tali Debby (lui) e Coupè (lei), si spulciava la sequela di video musicali anni ’80 di you tube.
New order, Cure, Blondie, sopracciglia dipinte e capelli curiosamente gonfi…la carovana era cominciata bene, con un pezzo di Otis Day and the Knights in Animal house e l’ironia era esplosa con un video di animali sbronzi e ciondolanti prima, e un video di una partita di calcio fra i filosofi tedeschi e quelli greci dei Monty Pyton, poi.
Debby e Coupè indubbiamente si amavano tanto; lo si poteva ben capire dal modo e dall’incisività dei loro litigi frequenti.
Avrebbero avuto un figlio, prima o poi, e lo avrebbero chiamato Manolo.
Fu un momento e Coupè cadde dalla sedia, nel sorprendersi da sola che nella sua città, Arezzo, esisteva un karaoke.
In quanto a me, i giorni sembravano lunghi settimane, ma allo stesso tempo indicibilmente brevi; il tempo che poteva trascorrere fra la sveglia e il sonno si aggirava fra le nove e le dieci ore, non di più.
Cercavo una bella e simpatica altalenante stabilità e il fatto che non la trovavo da nessuna parte mi costringeva a prendere sonno il più possibile e con meno fatica possibile.
Dipingevo molto, leggevo poco, guardavo pochi film e poca tv, lasciavo che le cartoline attaccate all’armadio si staccassero e cadessero, senza muovere un ciglio. Caddero in ordine Dubai, Parigi, Rabat e Roma.
Intrattenevo molti rapporti umani superficiali e coltivavo alacremente solo quelli già consolidati; mi sforzavo poco, con ogni cosa. Forse la colpa era del freddo.
Probabilmente era tutto sbagliato, ma ricominciare sarebbe equivalso a scavare un buco nel marmo.
Così mi limitavo a scavare nel burro, con un trapano.
Facile.
Ma noioso.
Tentavo perciò di esorcizzare le mie giornate, ma l’esorcismo è ogni volta una sorta di fallimento: rimuove una realtà senza però cancellarla del tutto, lascia persuasi che i fatti quotidiani siano per noi solo emblemi di un mondo destituito di senso, lontananze senza fondo, con le quali perdersi a leticare per ogni poco. L’afrore della mia stessa noia calcava le sue unghie immateriali sul legno morbido dei mobili di camera mia, più piccola del solito.
Praticamente ormai senza finestra.
Lo specchio (per non offenderlo dirò antico) attaccato alla porta rifletteva me al computer, a scrivere queste precise righe; proprio queste. Adesso!
Riflessi, in un gioco di danza sgraziata, tutti gli oggetti del mio quotidiano: penne, fogli, la mia agenda, il posacenere, chiavi di casa, fazzoletti, telecamera, libri (Borges, Calvino, Burgess, vocabolario spagnolo-italiano, Orwell e un dizionario di mitologia), un moleskine a fisarmonica, un caricabatterie, soldi sparsi, il tabacco Golden Virginia giallo da 25g, un autoritratto in fotocopia, il cellulare, il cd dei Globage, il mio orologio, dei pennelli, un disegno che raffigurava un cervo dal volto umano e barbuto, un sasso liscio come l’olio.
Il sasso veniva da Barcellona.
I soldi erano pochini.
Il disegno del cervo invece è una lunga storia.
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