III
A breve dei bravi sarebbero venuti qui nel nostro appartamento a pretendere il mio letto, quello in cui ogni notte, comodamente, dormivo.
Il fatto è che era di loro proprietà, ma non molto tempo dopo ci saremmo occupati di cambiare casa; ne consegue che avrebbero potuto aspettare, così come fino ad allora avevano lasciato passare un anno e mezzo, un altro paio di mesi.
Sarebbe stata una dura lotta, ma l’avremmo vinta noi.
Tito Sarrocchi numero 13 straccia tutti, senza eccezioni.
Senza il letto la mia stanza, al di là del fatto che non avrei potuto più dormirci, non sarebbe stata più la stessa. Si trovava all’ esatta fine di un lungo corridoio fatto a spirale, al centro della casa, come se fosse stata un piccolo cuore pulsante. Non era di grandi dimensioni, la finestra era minuscola; tempo fa decisi di mettere il letto a terra, per avere la sensazione che il soffitto fosse più lontano.
Abitavo con altre cinque persone: un duro fuori, ma soffice dentro, di nome Arcangelo, convinto che le donne sono femministe per principio, mentre gli uomini sono maschilisti per approssimazione; un francese, tale Karlheintz, attore molto sulle sue; una ragazza di Verona tutta presa dalla sartoria, Panna; uno spilungone silenzioso, spirituale tipo ‘cacca al diavolo, fiori a Gesù’ di Altamura, Junior, a suo agio con l’abbassamento dei toni; e Tarma, di Verona anche lei, ma fissata con altre cose, non certo con la sartoria.
Poi, in casa, c’ero io: occhi lubrici, andamento pantagruelico, baticolpica esistenza, trascinata e ritrovata; io, saporito come abelmosco, seduzione della seduzione, convinto che ad una determinata ora della notte il buio raddoppiava. Su di me ‘solo stronzate ed eliotropismo’ bagnati di vino bianco; io, che comparavo Dio all’arrotino: ventiquattro cazzo di anni che lo sento berciare ogni settimana, ma non lo si è mai visto.
Io, mal di testa con le gambe, un pollo 10+, con grandi occhi color marrone, resi grigi dal grande sole giallo e dal cielo pieno, color cobalto.
Io, che saprei perdermi nella strada che porta dalle palle al culo.
Io, che le mie storie hanno un protagonista e quello sono io, che mi sotterro di valige per arrivare dalla camera da letto alla cucina, che al liceo giocavo a chi spingeva di più dall’orifizio anale senza smarmottare (la profe di greco non se n’è mai accorta), che non gioco mai a carte, mai alle parole crociate, ma giocherei tutta la vita a Risiko!, a nascondino, o a tetris o indovina chi in versione umana.
Io, convinto che Cristiano Godano in realtà è un play mobil.
Io, che deploro dell’esistenza il suo lato attendista, ma che non riesco a prendere una decisione senza consultarmi fino allo sfinimento, che decido sempre in ritardo, sia nel bene che nel male; io che sono bene e male e, permettetemi di dirlo, lo faccio bene.
Io che viaggio nel tempo, la notte, stipulando accordi di pace con politici di un’altra epoca, alla quale aggiusto il cravattino annodato storto.
Io, che porto la cravatta quasi solo quando viaggio in treno, per vederla sventolare sul binario, al passaggio di un mezzo ferrato.
Io, che amo chi mi ama e odio chi mi ama troppo.
Ebbene stavo io, nel bel mezzo della nostra casa, ad attendere che il caffè non scottasse più così tanto, a sgattaiolare dietro le parole di queste pagine, sinceramente colpito dalla loro assoluta mancanza di significato.
Io che del significato, molto spesso, ne facevo a meno, anche perché molto spesso le cose non ce l’hanno. Quel giorno il mio oroscopo recitava così la sua parte inutile e ovviamente priva di significato:
Oggi dovrete proprio cercare di ascoltare di più qualcuno accanto a voi, forse un parente che inevitabilmente, con Marte ancora ostico, potrebbe mettere bocca. Ma non temete, sono situazioni del tutto superabili se non trascenderete con i litigi. Tranquilli!
Mi misi ad ascoltare quel qualcuno accanto a me.
Mi voltai a controllare, perché non sentivo nulla.
Non c’era nessuno. Ero solo nella mia stanza, al centro della spirale quadrata.
Ascoltai allora un po’ di musica.
Frank Sinatra.
Under my skin.
Ore 2: 40. Quella notte, a quell’ora ero ancora davanti a quel computer.
I bravi, forse intimoriti dalla nostra superiorità, non si erano fatti vivi per il letto.
L’oroscopo aveva indubbiamente fallito.
Come previsto.
Sulla mia scrivania ancora gli stessi oggetti: il posacenere pieno, il cellulare spento, i libri aperti e sparsi in disordine, ma solo apparente.
Il sasso ancora al suo solito posto, nel comodo ruolo di ferma carte.
I soldi, già in precedenza pochi, erano quasi finiti.
Tante nanne.
IV
(POLLI CIECHI)
Avrei voluto avere un giardino, col mio piccolo orticello, un’amaca fra gli alberi di mele, dei cespugli di qualche fiore strano e colorato, con Berlusconi che, da bravo nanetto, se ne sta lì fermo a custodire Biancaneve.
Magari accanto a lui qualche statuetta tipo Duomo di Milano.
Ma non è tempo di giardini; piove, governo ladro!
In quel clima, immerso da quei desideri speciali, viaggiavo nella notte in compagnia dei soliti elementi umani. A me si univano personaggi già citati, come Debby e Coupè, la quale rivelava particolari della sua esistenza a noi ignoti e di cui non volevamo saperne nulla.
-Secondo me, ragazzi, noi facciamo la vita dei polli ciechi…
Nessuno capiva.
-A che mi serve la laurea se il mio punto di vista è relativo? Basta! Mollo tutto….il lavoro, l’università, Siena, Manolo, e vado a comprare le sigarette, quelle vere, quelle industriali!
Non è tardi per cambiare, sapete? Ho deciso! Devo svoltare, invecchierò in discoteca…o ad Arezzo, al karaoke…
Il suo punto di vista si faceva sempre più sconnesso, mentre Debby emetteva suoni gutturali dal profondo della sua scazzataggine, agitando lo sguardo sul pavimento lastricato di Siena.
Erb, una piccola e bionda amica, se ne stava appoggiata in disparte, accogliendo quello che veniva con aria disoccupata. Accanto a lei sopraggiunse Attebasile con le mani e le scarpe piene di Braulio (piccolo incidente avvenuto in serata), tutta intenta a dedicarsi ad Arduino, che oramai amava più di una persona. –Con Arduino ci puoi fare tutto! – diceva –Anche l’amore!
Poco più in la Genny Morandi ascoltava Coupè, inseguendola sin nel profondo dei suoi deliri.
-Il subconscio domina l’uomo, ma non del tutto! Voglio dire, secondo me di lesbiche vere non ce ne sono…alla fine inseguono tutte lo stesso pezzo di carne!
Genny Morandi annuiva.
Impietositi dalla sfacciata ubriachezza di Coupè, decidemmo per la colazione. La notte, ormai, s’era trasformata in giorno.
Lei non sarebbe invecchiata in nessuna discoteca, in nessun karaoke. Al massimo le avremmo permesso di comprare le sigarette, quelle vere, industriali.
Appoggiati uno sull’altro, al bar, il caffè borbottante e nero a impedire la nostra perdizione.
Io, Debby, Coupè, Erb, Genny Morandi e Attebasile, a fissare il vetro pulito, dietro il quale i Quattro Cantoni già frenetici di vita mattutina.
Prima colazione, e non l’ultima, di certo.
Avrei avuto bisogno di altro caffè, visto l’oroscopo, per poter procedere sicuro, così come mi veniva consigliato:
Oggi potrete stipulare validi contratti danarosi. Riuscirete ad avere dei vantaggi affaristici. E potrete apporre una firma proprio per quanto concerne quel dato progetto. Ebbene, non rimandate le scelte del caso e procedete sicuri della situazione che si è andata a crearsi.
Mi destai il pomeriggio con scene di famiglia tipo spalmiamoci i biscotti di nutella a vicenda.
Fatta la seconda colazione ricordai improvvisamente di quella volta che vidi un cerbiatto, o qualcosa di simile, correre davanti al Cambio di via Panteneto in pieno sabato sera.
Io e una amica serba si fumava una sigaretta spalle al locale, quand'ecco passare una cosa che al principio pareva un grosso cane con le corna.
Prendemmo a inseguirlo, fin nelle nostre possibilità di corsa, quando quello si ritrova davanti all' enorme muro umano del bibò. Sempre più impaurito spaccò a metà la folla minacciando incornate e si dileguò verso Camollia. Pochi giorni prima lessi su di una civetta di un cerbiatto entrato in una gioielleria. Tanti tanti tanti euro di danni.
Fatta la seconda colazione ricordai improvvisamente di quella volta che vidi un cerbiatto, o qualcosa di simile, correre davanti al Cambio di via Panteneto in pieno sabato sera.
Io e una amica serba si fumava una sigaretta spalle al locale, quand'ecco passare una cosa che al principio pareva un grosso cane con le corna.
Prendemmo a inseguirlo, fin nelle nostre possibilità di corsa, quando quello si ritrova davanti all' enorme muro umano del bibò. Sempre più impaurito spaccò a metà la folla minacciando incornate e si dileguò verso Camollia. Pochi giorni prima lessi su di una civetta di un cerbiatto entrato in una gioielleria. Tanti tanti tanti euro di danni.
Forse ci si doveva preparare ad un’invasione.
E poi dritto nuovamente alla mia scrivania, coi tasti del computer per le mani.
Me ne stavo in disparte dal mondo per tentare di capirlo meglio, più a fondo. Conoscevo due modi per capirlo: uno era questo, l’altro era buttar mici a capofitto, nella vita, afferrando indiscriminatamente ogni cosa, ogni persona, tutte le conversazioni, anche quelle lunghe, noiose, che si fanno da ubriachi con ubriachi.
Forse le più intelligenti; forse le più interessanti.
Quindi eravamo io, il mio computer, lo specchio e i pantaloni stesi ad asciugare vicino al calorifero.
Ogni tanto davo un occhio alla mia immagine riflessa, per carpirne ciò che gli altri avrebbero potuto vedere, se me, così come mi intendo io, oppure un altro me, disteso fra mille altri, con milioni di caratteristiche, pregi e difetti.
Molto pirandelliano.
Fu allora che capii: la nostra vita, il nostro vagare, è come quello di un qualsiasi pollo cieco.
Nell’aia, a girovagare senza aver compreso la meta, senza una opinione valida e non relativa sulle questioni della fattoria. Polli, che non vedono oltre il becco.
Siamo tutti, nessuno escluso, polli ciechi.
Io però, permettetemi, mi sentivo un pollo 10+.