20/12/10

MADONNA CIECA IN UNA VALLE DI SPIGOLI - parte seconda

III




A breve dei bravi sarebbero venuti qui nel nostro appartamento a pretendere il mio letto, quello in cui ogni notte, comodamente, dormivo.
Il fatto è che era di loro proprietà, ma non molto tempo dopo ci saremmo occupati di cambiare casa; ne consegue che avrebbero potuto aspettare, così come fino ad allora avevano lasciato passare un anno e mezzo, un altro paio di mesi.
Sarebbe stata una dura lotta, ma l’avremmo vinta noi.
Tito Sarrocchi numero 13 straccia tutti, senza eccezioni.
Senza il letto la mia stanza, al di là del fatto che non avrei potuto più dormirci, non sarebbe stata più la stessa. Si trovava all’ esatta fine di un lungo corridoio fatto a spirale, al centro della casa, come se fosse stata un piccolo cuore pulsante. Non era di grandi dimensioni, la finestra era minuscola; tempo fa decisi di mettere il letto a terra, per avere la sensazione che il soffitto fosse più lontano.
Abitavo con altre cinque persone: un duro fuori, ma soffice dentro, di nome Arcangelo, convinto che le donne sono femministe per principio, mentre gli uomini sono maschilisti per approssimazione; un francese, tale Karlheintz, attore molto sulle sue; una ragazza di Verona tutta presa dalla sartoria, Panna; uno spilungone silenzioso, spirituale tipo ‘cacca al diavolo, fiori a Gesù’ di Altamura, Junior, a suo agio con l’abbassamento dei toni; e Tarma, di Verona anche lei, ma fissata con altre cose, non certo con la sartoria.
Poi, in casa, c’ero io: occhi lubrici, andamento pantagruelico, baticolpica esistenza, trascinata e ritrovata; io, saporito come abelmosco, seduzione della seduzione, convinto che ad una determinata ora della notte il buio raddoppiava. Su di me ‘solo stronzate ed eliotropismo’ bagnati di vino bianco; io, che comparavo Dio all’arrotino: ventiquattro cazzo di anni che lo sento berciare ogni settimana, ma non lo si è mai visto.
Io, mal di testa con le gambe, un pollo 10­+, con grandi occhi color marrone, resi grigi dal grande sole giallo e dal cielo pieno, color cobalto.
Io, che saprei perdermi nella strada che porta dalle palle al culo.
Io, che le mie storie hanno un protagonista e quello sono io, che mi sotterro di valige per arrivare dalla camera da letto alla cucina, che al liceo giocavo a chi spingeva di più dall’orifizio anale senza smarmottare (la profe di greco non se n’è mai accorta), che non gioco mai a carte, mai alle parole crociate, ma giocherei tutta la vita a Risiko!,  a nascondino, o a tetris o indovina chi in versione umana.
Io, convinto che Cristiano Godano in realtà è un play mobil.
Io, che deploro dell’esistenza il suo lato attendista, ma che non riesco a prendere una decisione senza consultarmi fino allo sfinimento, che decido sempre in ritardo, sia nel bene che nel male; io che sono bene e male e, permettetemi di dirlo, lo faccio bene.
Io che viaggio nel tempo, la notte, stipulando accordi di pace con politici di un’altra epoca, alla quale aggiusto il cravattino annodato storto.
Io, che porto la cravatta quasi solo quando viaggio in treno, per vederla sventolare sul binario, al passaggio di un mezzo ferrato.
Io, che amo chi mi ama e odio chi mi ama troppo.
Ebbene stavo io, nel bel mezzo della nostra casa, ad attendere che il caffè non scottasse più così tanto, a sgattaiolare dietro le parole di queste pagine, sinceramente colpito dalla loro assoluta mancanza di significato.
Io che del significato, molto spesso, ne facevo a meno, anche perché molto spesso le cose non ce l’hanno. Quel giorno il mio oroscopo recitava così la sua parte inutile e ovviamente priva di significato:

Oggi dovrete proprio cercare di ascoltare di più qualcuno accanto a voi, forse un parente che inevitabilmente, con Marte ancora ostico, potrebbe mettere bocca. Ma non temete, sono situazioni del tutto superabili se non trascenderete con i litigi. Tranquilli!

Mi misi ad ascoltare quel qualcuno accanto a me.
Mi voltai a controllare, perché non sentivo nulla.
Non c’era nessuno. Ero solo nella mia stanza, al centro della spirale quadrata.
Ascoltai allora un po’ di musica.
Frank Sinatra.
Under my skin.

Ore 2: 40. Quella notte, a quell’ora ero ancora davanti a quel computer.
I bravi, forse intimoriti dalla nostra superiorità, non si erano fatti vivi per il letto.
L’oroscopo aveva indubbiamente fallito.
Come previsto.
Sulla mia scrivania ancora gli stessi oggetti: il posacenere pieno, il cellulare spento, i libri aperti e sparsi in disordine, ma solo apparente.
Il sasso ancora al suo solito posto, nel comodo ruolo di ferma carte.
I soldi, già in precedenza pochi, erano quasi finiti.
Tante nanne.





IV
(POLLI CIECHI)




Avrei voluto avere un giardino, col mio piccolo orticello, un’amaca fra gli alberi di mele, dei cespugli di qualche fiore strano e colorato, con Berlusconi che, da bravo nanetto, se ne sta lì fermo a custodire Biancaneve.
Magari accanto a lui qualche statuetta tipo Duomo di Milano.
Ma non è tempo di giardini; piove, governo ladro!
In quel clima, immerso da quei desideri speciali, viaggiavo nella notte in compagnia dei soliti elementi umani. A me si univano personaggi già citati, come Debby e Coupè, la quale rivelava particolari della sua esistenza a noi ignoti e di cui non volevamo saperne nulla.
-Secondo me, ragazzi, noi facciamo la vita dei polli ciechi…
Nessuno capiva.
-A che mi serve la laurea se il mio punto di vista è relativo? Basta! Mollo tutto….il lavoro, l’università, Siena, Manolo, e vado a comprare le sigarette, quelle vere, quelle industriali!
Non è tardi per cambiare, sapete? Ho deciso! Devo svoltare, invecchierò in discoteca…o ad Arezzo, al karaoke…
Il suo punto di vista si faceva sempre più sconnesso, mentre Debby emetteva suoni gutturali dal profondo della sua scazzataggine, agitando lo sguardo sul pavimento lastricato di Siena.
Erb, una piccola e bionda amica, se ne stava appoggiata in disparte, accogliendo quello che veniva con aria disoccupata. Accanto a lei sopraggiunse Attebasile con le mani e le scarpe piene di Braulio (piccolo incidente avvenuto in serata), tutta intenta a dedicarsi ad Arduino, che oramai amava più di una persona. –Con Arduino ci puoi fare tutto! – diceva –Anche l’amore!
Poco più in la Genny Morandi ascoltava Coupè, inseguendola sin nel profondo dei suoi deliri.
-Il subconscio domina l’uomo, ma non del tutto! Voglio dire, secondo me di lesbiche vere non ce ne sono…alla fine inseguono tutte lo stesso pezzo di carne!
Genny Morandi annuiva.
Impietositi dalla sfacciata ubriachezza di Coupè, decidemmo per la colazione. La notte, ormai, s’era trasformata in giorno.
Lei non sarebbe invecchiata in nessuna discoteca, in nessun karaoke. Al massimo le avremmo permesso di comprare le sigarette, quelle vere, industriali.
Appoggiati uno sull’altro, al bar, il caffè borbottante e nero a impedire la nostra perdizione.
Io, Debby, Coupè, Erb, Genny Morandi e Attebasile, a fissare il vetro pulito, dietro il quale i Quattro Cantoni già frenetici di vita mattutina.
Prima colazione, e non l’ultima, di certo.
Avrei avuto bisogno di altro caffè, visto l’oroscopo, per poter procedere sicuro, così come mi veniva consigliato:

Oggi potrete stipulare validi contratti danarosi. Riuscirete ad avere dei vantaggi affaristici. E potrete apporre una firma proprio per quanto concerne quel dato progetto. Ebbene, non rimandate le scelte del caso e procedete sicuri della situazione che si è andata a crearsi.

Mi destai il pomeriggio con scene di famiglia tipo spalmiamoci i biscotti di nutella a vicenda.
Fatta la seconda colazione ricordai improvvisamente di quella volta che vidi un cerbiatto, o qualcosa di simile, correre davanti al Cambio di via Panteneto in pieno sabato sera.
Io e una amica serba si fumava una sigaretta spalle al locale, quand'ecco passare una cosa che al principio pareva un grosso cane con le corna.
Prendemmo a inseguirlo, fin nelle nostre possibilità di corsa, quando quello si ritrova davanti all' enorme muro umano del bibò. Sempre più impaurito spaccò a metà la folla minacciando incornate e si dileguò verso Camollia. Pochi giorni prima lessi su di una civetta di un cerbiatto entrato in una gioielleria. Tanti tanti tanti euro di danni.
Forse ci si doveva preparare ad un’invasione.

E poi dritto nuovamente alla mia scrivania, coi tasti del computer per le mani.
Me ne stavo in disparte dal mondo per tentare di capirlo meglio, più a fondo. Conoscevo due modi per capirlo: uno era questo, l’altro era buttar mici a capofitto, nella vita, afferrando indiscriminatamente ogni cosa, ogni persona, tutte le conversazioni, anche quelle lunghe, noiose, che si fanno da ubriachi con ubriachi.
Forse le più intelligenti; forse le più interessanti.
Quindi eravamo io, il mio computer, lo specchio e i pantaloni stesi ad asciugare vicino al calorifero.
Ogni tanto davo un occhio alla mia immagine riflessa, per carpirne ciò che gli altri avrebbero potuto vedere, se me, così come mi intendo io, oppure un altro me, disteso fra mille altri, con milioni di caratteristiche, pregi e difetti.
Molto pirandelliano.
Fu allora che capii: la nostra vita, il nostro vagare, è come quello di un qualsiasi pollo cieco.
Nell’aia, a girovagare senza aver compreso la meta, senza una opinione valida e non relativa sulle questioni della fattoria. Polli, che non vedono oltre il becco.
Siamo tutti, nessuno escluso, polli ciechi.
Io però, permettetemi, mi sentivo un pollo 10+.







14/12/10

MADONNA CIECA IN UNA VALLE DI SPIGOLI - la mia vita tratta da una storia vera



I
(SAN CASSIANO A POZZO di MORIANO)




All’alba mi destai privo della grazia godereccia che aveva caratterizzato la mia serata precedente.
Lucca era comunque risultata essere una città, di contro alle nostre previsioni, molto, ma molto lontana.
Addentai quel poco di ossigeno rimasto nello stanzone anelando una buona tazza di caffè, senza che però vi fossero tazzine e/o qualcosa di simile, né tantomeno una caffettiera in grado di produrne uno di qualità decente.
Ero stato calpestato per tutta la notte, o quasi.
Misurai i passi nel corridoio, attento a non pestare nel buio la coda al gatto Gaetano, direzione cucina e inconsciamente attento anche ad ogni spigolo sporgente. Qui, di faccia al fornello, la moka fra le mani, il caffè sul cucchiaino risultò tremolante e un po’ impreciso, tanto da buttarne qualche granello innocuo sui baffi di Gaetano che, in risposta, fece: -Miao.
Mentre accendevo il gas mi sorprese un botto profondo, che echeggiò nella valle chiusa dai monti della Garfagnana…sempre che fossimo nella Garfagnana.
Fece il suo ingresso nella cucina un certo Luchino, armato di grossi petardi al grido di “ora vi sfondo il cofano a tutti!”, liberando la sua follia da polvere da sparo sulle innocenti carrozzerie delle nostre autovetture. Un altro botto.
Gaetano era sparito in chissà quale angolo della casa, spaventato.
Ricordo che sfoggiai contro tale Luchino un linguaggio forbito ed elegante in risposta ai suoi ludici e grezzi insulti.
-Pezzo di merda…quelle macchine ci devono riportare a Siena, cazzone!
Luchino scomparve, nella nuvola del suo petardo, per le pieghe scure della valle al mattino.
Il caffè ora gorgogliava come il mio stomaco, mentre Gaetano si ripresentò al mio cospetto nel suo vestito migliore, tutto impettito e orgoglioso, come se avesse cacciato lui quel grande topo che era Luchino.
Versai il nettare nero del risveglio in una specie di tazzina, crepata in ogni lato, a rischio graffio sulle labbra, già tagliate dal freddo della Garfagnana...sempre che fossimo in Garfagnana.
Nel giro di pochi minuti, attirati dall’odore di caffè, si sarebbero alzati tutti e si sarebbero poi radunati in corridoio, in posizione fila per il bagno, aggredendosi a vicenda per il poco caffè rimasto. Nessuna promessa di colazione avrebbe potuto calmare quella folla balorda di bisognosi, nemmeno un nuovo caffè messo su: ci sarebbe voluto troppo tempo. Il risveglio doveva avvenire all’istante, o così o niente.
Mi accesi perciò una sigaretta sul ballatoio, lontano da ciò che si sarebbe creato, catturando tutto il sole possibile che si faceva largo fra gli alberi, fra le nuvolette di fumo dei petardi da poco scoppiati.
-Guarda quanto cielo- pensai.
Ed ero lì, in una posizione di equilibrio fra la luce del mattino e il buio della notte trascorsa, che cominciai a ricordare con maggiore precisione la serata e il viaggio della speranza che ci portò lì, in quel luogo molto probabilmente nemmeno segnalato sulle cartine, non visto dai satelliti.
Siena-Lucca-Lucca-San Cassiano di Moriano, cinque ore e mezza, in auto. Qualcosa che sfiorava il ridicolo e che mi avrebbe di lì in poi messo in eterna guerra contro google map.
Ecco come vedo io la Toscana dal finestrino di un auto: la discontinuità delle strade di collegamento fra un paese e un altro è di una disarmante impossibilità di orientamento per un qualsiasi avventore inesperto del luogo e magari pure non toscano.
La cosa più facile in macchina in Toscana è girare attorno al paese che cerchi senza mai trovarlo.
Questo implica una lunga serie di ‘Chiediamo a quello lì’; tiri giù il finestrino, gli indichi sulla cartina il punto che devi raggiungere ad ogni modo e questo, sospirando e allungando lo sguardo nel vuoto, commenta: -Avete sbagliato tutto…
Ma la strada non te la spiega; troppo complicato.
Riprovi.
Scendi dalla macchina per raggiungere qualcuno.
Il primo che trovi è africano.
Il secondo viene da dove vieni tu.
Il terzo è del posto, ci pensa per un abbondante quarto d’ora e poi ti consegna un biglietto per una nuova indicazione sbagliata.
Ma il bello resta che in tutto questo, al paese che cerchi, ci sei sempre stato incredibilmente vicino.
Sopravvivono leggende millenarie sul fatto che Cristo non si sia affatto fermato a Eboli, bensì a Empoli. Solo una questione di orientamento, colpa del via michelin.

Prendemmo un po’ tutti il sole, allegra e assonnata scorribanda di musicisti, videoamatori, groupies e semplici presenti, appoggiati alle auto in sosta nel parcheggino sotto casa. La dimora era grandissima, proprietà di un certo nonmiricordoilnome, un gigante buono, al quale riconsegnammo un appartamento troppo troppo troppo disordinato per come lo si era trovato.
La sera prima un concerto di tre gruppi, per i  quali io dovetti fare dei filmati senza compenso. Quello, il mio compenso, era per me il semplice uscire per un paio di giorni dalla stretta cinta muraria senese.
Tornammo in auto e ci sembrò di non esserne mai scesi.
Il viaggio fu questo turno più breve, circa un’ora e mezza, senza correre troppo e senza perderci nemmeno una volta. Il sole rifletteva i suoi raggi dai finestrini sulle lenti dei miei occhiali, creando strani giochi di luce, mentre io mi occupavo di ritrarre con la telecamera chi dormiva, con canzoni anni ’70 allo stereo. Siena nord ci accolse con il telegiornale radio che dava notizie da Haiti, dopo il terremoto. Dietro a noi, il sole se ne tornava velocemente da dove era venuto.















II



Ritorno a Siena, descrizione: gente in giro meno di zero, attività utili alla sopravvivenza umana aperte, meno di nessuna, tipica contentezza del ritorno a casa da un viaggio qualsiasi, approssimativa.
Sensazioni: stanchezza, tanta tanta tanta stanchezza.
Un paio di giorni dopo, fra le mura domestiche di due giovani compari, tali Debby (lui) e Coupè (lei), si spulciava la sequela di video musicali anni ’80 di you tube.
New order, Cure, Blondie, sopracciglia dipinte e capelli curiosamente gonfi…la carovana era cominciata bene, con un pezzo di Otis Day and the Knights in Animal house e l’ironia era esplosa con un video di animali sbronzi e ciondolanti prima, e un video di una partita di calcio fra i filosofi tedeschi e quelli greci dei Monty Pyton, poi.
Debby e Coupè indubbiamente si amavano tanto; lo si poteva ben capire dal modo e dall’incisività dei loro litigi frequenti.
Avrebbero avuto un figlio, prima o poi, e lo avrebbero chiamato Manolo.
Fu un momento e Coupè cadde dalla sedia, nel sorprendersi da sola che nella sua città, Arezzo, esisteva un karaoke.

In quanto a me, i giorni sembravano lunghi settimane, ma allo stesso tempo indicibilmente brevi; il tempo che poteva trascorrere fra la sveglia e il sonno si aggirava fra le nove e le dieci ore, non di più.
Cercavo una bella e simpatica altalenante stabilità e il fatto che non la trovavo da nessuna parte mi costringeva a prendere sonno il più possibile e con meno fatica possibile.
Dipingevo molto, leggevo poco, guardavo pochi film e poca tv, lasciavo che le cartoline attaccate all’armadio si staccassero e cadessero, senza muovere un ciglio. Caddero in ordine Dubai, Parigi, Rabat e Roma.
Intrattenevo molti rapporti umani superficiali e coltivavo alacremente solo quelli già consolidati; mi sforzavo poco, con ogni cosa. Forse la colpa era del freddo.
Probabilmente era tutto sbagliato, ma ricominciare sarebbe equivalso a scavare un buco nel marmo.
Così mi limitavo a scavare nel burro, con un trapano.
Facile.
Ma noioso.
Tentavo perciò di esorcizzare le mie giornate, ma l’esorcismo è ogni volta una sorta di fallimento: rimuove una realtà senza però cancellarla del tutto, lascia persuasi che i fatti quotidiani siano per noi solo emblemi di un mondo destituito di senso, lontananze senza fondo, con le quali perdersi a leticare per ogni poco. L’afrore della mia stessa noia calcava le sue unghie immateriali sul legno morbido dei mobili di camera mia, più piccola del solito.
Praticamente ormai senza finestra.
Lo specchio (per non offenderlo dirò antico) attaccato alla porta rifletteva me al computer, a scrivere queste precise righe; proprio queste. Adesso!
Riflessi, in un gioco di danza sgraziata, tutti gli oggetti del mio quotidiano: penne, fogli, la mia agenda, il posacenere, chiavi di casa, fazzoletti, telecamera, libri (Borges, Calvino, Burgess, vocabolario spagnolo-italiano, Orwell e un dizionario di mitologia), un moleskine a fisarmonica, un caricabatterie, soldi sparsi, il tabacco Golden Virginia giallo da 25g, un autoritratto in fotocopia, il cellulare, il cd dei Globage, il mio orologio, dei pennelli, un disegno che raffigurava un cervo dal volto umano e barbuto, un sasso liscio come l’olio.
Il sasso veniva da Barcellona.
I soldi erano pochini.
Il disegno del cervo invece è una lunga storia.


08/12/10

Matrioshka

"Accade invariabilmente
che il punto di partenza
della saggezza sia la
paura"
DE UNAMUNO


I.

Si passeggia per le strade, nei primi giorni appena ci si trasferisce in un posto. C'é bisogno, innanzitutto, di individuare tutti quei luoghi che possano soddisfare le necessitá primarie: il supermercato piú economico, la banca, la posta, il negozio di strumenti musicali, la pizzeria... Tutto é nuovo e ci si vuole abituare agli accostamenti di colori, agli odori; renderselo familiare, farci parte e venirne accolti. I difetti non vengono percepiti subito, tutto é ancora appannato dalla sorpresa, dalla novitá. Piú acuto é lo sguardo prima si riesce a mettere a fuoco, ad abituare la retina. Per chi viaggia – ma nel senso pieno del termine, trasferendosi, vivendo il luogo davvero – é bene iniziare subito a familiarizzare con il nuovo ambiente. Al contrario, il turista guarda e passa, é solo un povero voyeur che scappa quando dal prostibolo gli si tende la mano per coinvolgerlo, per viltá e vergogna delle sue piú perverse fantasie. Uno deve sentirsi a casa per vivere tranquillamente: anche se con qualche timore, si esplorano molti vicoli, scoprendo scorciatoie sudice, incontrando bettole con il loro vomito di relitti umani sulla strada, alimentari, barbieri rigorosamente asiatici delle ex-colonie. Si va avanti per curiositá, un istinto piú forte della paura. Sono le opinioni che caricano a dismisura il cazzottone in piena faccia che si riceve dalla paura. Avevo preso casa in una cittadina persa tra le rosse rocce di Scozia. Il mio lavoro era a Glasgow e ogni fredda mattina prendevo il treno, che in una ventina di minuti mi portava nella metropoli. Nell'attesa del viaggio sfogliavo i tabloid gratuiti che trovavo sui sedili, che é ovvio che siano fatti apposta per svegliare i pendolari. E per sortire un effetto ottimale, le redazioni, da che mondo e mondo, mettono la cronaca nera in prima pagina. In una settimana di spostamenti, contai un numero schifosamente grande di notizie riguardo ad omicidi o processi per omicidi in corso di dibattimento, che vedevano coinvolti minorenni per almeno l'ottanta per cento dei casi in qualitá di carnefici, come per esempio quel ragazzo di diciotto anni, all'epoca dei fatti solo quindici, che in quei giorni attendeva la condanna definitiva per aver fracassato a piedi uniti il cranio di un cinquantenne, aggredito mentre questi aspettava un taxi. Oppure vari approfondimenti sulla distribuzione di armi bianche e da fuoco tra la gioventú britannica e su quali modelli inducessero per emulazione a tanta violenza espressa. Altre notizie potevano vertere sullo smodato consumo giovanile d'alcool: una volta spiccava, anch'esso in prima pagina, il caso di un ventiduenne malato cronico di cirrosi a cui era stato negato un trapianto di fegato, perché era un recidivo, e le autoritá sanitarie lo avevano surclassato nella classifica delle prioritá; o dello spaccio di eroina a liceali. Generazione turbolenta, insomma. Era facile fantasticare, poter supporre che le sale del pronto soccorso dell'ospedale centrale fossero delle macellerie o delle camere di spurgo industriale. Questa scorpacciata di down-town mi faceva uscire dal treno in qualche modo sconvolto. Iniziai a provare timore ad ogni angolo. Mi guardavo attorno furtivo, valutavo attentamente prima di agire: ai pub o in prossimitá di capannelli di ragazzini in tuta bianca e capelli rasati, cambiavo strada; seguivo la gente, dove c'erano piú occhi mi sentivo al sicuro; per raggiungere un luogo, l'itinerario si formulava tenendo presenti queste premesse, e si puó capire che razza di abitudine malsana avessi contratto. A lavoro alcuni colleghi, di quelli sadici, che godono nell'insinuare sottili trappole nella psiche del nuovo arrivato, mi raccontarono il modo in cui due colleghi erano stati assassinati qualche anno prima: uno da un gruppetto di NEDs, si dice solo per non aver dato una sigaretta, l'altro investito da una macchina in corsa; inoltre una cameriera della cafeteria era stata trovata dopo due giorni soffocata dal vomito nel suo letto, con accanto la figlioletta di un anno, spaventata ed affamata – questo era del tutto superfluo, ma tutto va nel calderone, tutto fa brodo!
Mentre camminavo per la via, le immagini di ferite, sangue, vomito e lerciume, fulminavano il mio campo visivo e il ritorno a casa mi diventava un'impresa. Un giorno, rientrando, trovai per terra, nell'ultima traversa prima di casa, degli occhiali da sole, che a prima vista mi eran parsi un sorcio morto: mi bloccai inorridito, poi i miei occhi notarono tutti i particolari della forma, che poco aveva a che fare con i contorni di un topo. Lí c'era un grande parallelepipedo posto in verticale, un condominio popolare, simbolo dell'assistenzialismo del governo scozzese alle famiglie "difficili". Sincerandomi dell'assenza di gente attorno a me, li raccolsi e li nascosi in tasca. Non mi azzardai mai ad indossarli, avevo sempre paura di essere scoperto dal legittimo proprietario, probabilmente un giovane teppistello.
Mi calmavo solo quando imboccavo le scale del verde palazzo di casa, inforcavo la chiava nell'uscio e piantavo i piedi sulla rossa moquette di casa. La mia vita era ancora salva, ora ero tra i miei affetti, tra i miei sapori: subito mettevo l'acqua a bollire, tagliuzzavo l'aglio, lavavo i peperoni. Cheto e satollo mi rullavo una sigaretta di tabacco e me ne andavo a letto, non pensando al calvario del giorno dopo.



II.

Eventi mutano, un fiume in piena, che tutto investe e trascina con sè. Sei totalmente impreparato, ma devi affrontarlo comunque.

"Saranno state circa le 9.15 quando ho aperto gli occhi... sí, nel sonno ho sentito un rumore, qualcosa, ma non ci ho fatto caso. Sai, magari qualche stoviglia scivolata dall'ammasso in equilibrio precario sul lavello, o uno stendino che, per il peso della roba stesa, si accascia su se stesso; non immaginavo minimamente che..."

Subentra la paura, strumento istintivo di autodifesa, che prende possesso del corpo, facendogli compiere le azioni piú impensabili. Salvandoci a volte la vita.
Iper-percezione della realtá: diventiamo piú sensibili, piú ricettivi e reattivi nei confronti dell'ambiente esterno.
Autoconservativa forza primordiale, che deriva dall'ignoranza, dal non sapere cosa c'é dietro, non poterlo prevedere. La scienza cos'é se non lo strumento per combattere tale mostro? E la religione lo fu prima di essa.

"No, guarda... sono stati tre giorni di merda. Solo oggi inizio a non sentire il bisogno di impugnare quella vecchia mazza da golf, che avevo trovato sul caminetto. Ad ogni rumore un sussulto, me li aspettavo nascosti nello sgabuzzino. A mente lucida, riconosco che il mio sia un atteggiamento esagerato. Direi esasperato. Che ci posso fare... c'ho il raschio!"

La paura diventa patologica. Al reiterarsi di avvenimenti a loro modo analogamente traumatici, la mente accusa il colpo.
Alterazione della realtá: lo stato passeggero che si manifesta con la "paura positiva" diventa stabile, immutabile, costante. Presentandosi certi parametri, ci si vede catapultare in un altro mondo, come inforcando degli occhiali 3D. Quel raschio: cicatrice che porta con se un passato di dolore. L'osso ricalcificato, quando cambia il tasso di umiditá nell'aria, ci rammenta che un giorno si ruppe. Razionalmente é tutto ingiustificato, ma la mente é ora in preda a convulsioni irrazionali. E lo sará anche in altre occasioni simili in futuro.

"E ora... continuare, anche se imbevuto di terrore? Mi sará difficile vivere. Mi sento sporco, devo lavarmi."

La paura che origina paura. Temere di avere il terrore di imboccare quelle verdi scale, di aprire la fragile porta e trovare tutto a soqquadro, di essere in casa e sentirsi sfondare l'uscio. Tutto insopportabile. Sapere che financo lí, nel piú privato, ci abbiano messo mani; l'immagine si fa nitida dinanzi: un bianco lindo di maiolica, insozzato da pedate fangose. Sporco e disagio le sensazioni.
Condizionamento della realtá ventura: io, soggetto affetto da questa patologia, mi proietto in un futuro distorto, solo scritto da questo mio stato mentale, apparentemente senza alcuna attinenza con il contingente. La presa di decisioni ne subisce il corrotto influsso. Questa paura é pari alla miopia: incalzante. La deformazione della retina rende questo disturbo rifrattivo non curabile, ma correggibile. E ritornano gli occhiali...
Solo che, quelli per la paura quali sono...??



III.

-Ma pensa sia grave?
-Si può anche porla sotto questa luce, non si offenda: é una matrioshka isterica.

Rantoli di fame. La mazza da golf che mi é tornata in mano. M'illudevo fosse finita. É stata solo per un po' in letargo.
Mah... devo cambiar aria. O aRea...

Caos Pt. II: due cavi scoperti, attaccati da un lato a un sintetizzatore; se toccati da piú mani, producono una sequenza semi-casuale di suoni dovuta all'aumentare della resistenza venutasi a creare all'interno del circuito sint-corpo umano.

Il preludio alla pazzZZZia passa per una fase di dipendenza da tutto ció che é piú deleterio: alcoOOl, droghe, insonnia. E la mente in costante movimento stimolata dalle fitte continue allo stomaco, perché nel turbinio ci si sCorda di mangiare.
Il terzo graDINo della paura sta per essere lasciato, p-p-ppper raggiunger,;>> -e il successivo.
Praaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaappilo.
Nurtwbyu ws dejdoe; n ed/;/log.dk andr paramsKMX THSM!
!.,: Esmavabz! bH...

Raggiunto.

...ahahahahahauuuuuuuuuuuuuuuuuaaaaaaaaaahh,
grrrh...
sigh, sob.



IV.

Sí, lavorava qui nel capannone blu, un mio dipendente. Impazzito, totalmente... un chitarrista sí, vinse pure un premio con una sua canzone a quelle garette di talento che organizzano ogni tanto quelli del social committee, sa... per alleviare un po' la pena ai dipendenti; organizzano anche gite, lotterie della fortuna, tornei sportivi, sono molto attivi. É importante lavorare in un contesto amichevole, dove si lascia spazio per il leisure-time, é da stimolo a far bene. E poi si cementifica il cameratismo, si forma una piccola famiglia. Mah... non lo so, era un tipo strano, molto stravagante. Divertente ma, escluso quell'altro pazzoide asociale francese con cui lo si vedeva sempre insieme, restava sempre sulle sue, non faceva gruppo nemmeno con i suoi connazionali. Da un po', mi diceva il suo team leader – sa io non lo conoscevo di persona... come riuscirei a ricordarmi di cinquecento dipendenti! –, era diventato paranoico riguardo la sicurezza: diceva che la Scozia era pericolosa, mbah... come tutti i posti del mondo, aggiungerei io. Ha subito anche un furto... ma queste boiate alla fine possono succedere, i mascalzoni sono internazionali, come i cinesi! Pian pianino 'sti stronzetti ti entrano pure nella City... Ripeto, non si sa molto, solo che sia impazzito. Ora l'hanno rinchiuso in un manicomio. Da non credere... dire che c'aveva una bella voce! Una volta si esibí con un chitarrone ingombrante, disse che era indiano; insieme ad un flautista e a un chitarrista svizzero che si spacciava per sardo, intonó una canzonetta dei Beatles... ricordo, lo ricordo, un vero peccato... Peró si sa, la pazzia ti puó prendere in qualunque momento. Certo, non viene a tutti: devi essere un tipo predisposto per questo genere di cose... io senza ombra di dubbio non lo diventerò mai. Troppo razionale: giá l'arte non la capisco piú di tanto, litigo sempre con mia moglie che vuole portarmi a vedere quelle recite di teatro... me lo lasci dire, noiosissime; io sono più per il folklore: birra e rugby, canti tradizionali e haggis. Ma sono estraneo a tutte le nevrosi di quest'uomo post-moderno. Siamo in un mondo dove non ci son guerre, c'é il pane per tutti, possiamo andare a scuola, crescere dei figli. E riusciamo anche a trovare un buon lavoro: qui non é male... Possiamo dunque realizzarci. Io tutte queste onde negative, tutta questa afflizione non la concepisco perché sono un ottimista. Mi rubano in casa? Pazienza, denuncio alla polizia e spero che li peschino, e intanto cambio la porta con una blindata. Ma la vita va avanti... dagli errori si impara e si mettono in pratica gli insegnamenti. Non va tutto in positivo, sia chiaro: oltre alle addizioni ci sono anche le sottrazioni, ma questa é la vita, tentare di incrementare il risultato... e i numeri sono infiniti, ci sono infinitá di risultati, come un'infinitá di procedimenti: puoi trovare scorciatoie come le moltiplicazioni, per esempio. Non importa cosa e come si faccia. Basta il risultato, basta che sia in positivo, che ci sia davanti il segno piú, anche se fosse solo un piú uno, o una frazione piú piccola. La vita é una somma. D'altronde ci sono molti studiosi che hanno ridotto tutto l'esistente a principi matematici, non c'é da stupirsi... Ma mi scusi se mi sono accalorato, dopotutto é stata lei a chiedermi di quel mio dipendente impazzito. Le stavo giusto dando la mia versione...

ESSENZIALE, DUNQUE

Mi sono prefissato tempo fa di comporre delle righe decenti per voi lettori, ma come d’incanto la quotidianità è riuscita a rubarmi tutto il tempo, a costringermi e a catturare ogni mio buon intento, fino a spingermi ai limiti utili per la consegna.
Quello che avete fra le mani dovrebbe essere il mio racconto breve, in corsa per il decimo Premio Nazionale di Narrativa Essenziale; sarò essenziale, dunque.
La mia vita recente si è svolta e dispiegata in tutte le sue varianti e possibilità nell’unica cornice, devo dire per nulla pittorica, delle strade e delle piazze di Brescia e provincia, fra dialoghi improbabili, incontri inaspettati e legami del passato. La mia ultima, recente fetta di vita è stata una sorta di navigazione su mari sconvolti, con unico mezzo una zattera malmessa e le mani, per remare.
Comincia, questa piccola serie di eventi, la sera del primo di Settembre, il mio grosso e vivo Settembre, al lume sbarbellante di un interno, scala B, condominio Bridge. Bridge significa ‘ponte’ e si dice in giro che da quel ponte per la vita ci si siano lanciati in molti. L’atterraggio seguente il salto è morbido, senza sostanziali pericoli, provocati solamente dalla propria personale noncuranza nel compiere il gesto. Per una perfetta realizzazione del salto spingere indietro le braccia, flettere i muscoli delle gambe e balzare in avanti pieni di sicurezza in sé stessi, dimenticando tutto e tutti, nel pieno delle proprie forze, convinti.
Saltai, dunque, mentre poco prima in mia compagnia si dispiegavano sul muretto antistante la scala B nel seguente ordine Pi, diminutivo di Pietro, Pietro, diminutivo di Pietropaolo, Bongo (l’amico immaginario di Pietro), Pierpappa, prolungamento di Pier che asseconda la sua eterna fame e Angelo, diminutivo di Giuseppangelo.
La massa informe e scoordinata che le loro figure avevano composto davanti ai miei occhi seguitava ormai da ore a cercare di convincermi a saltare.
-Che aspetti? Salta!!
-Non saprei, dite che sia il caso?
-Certo che lo è! Non siamo mica venuti fin qui per guardarti rinunciare!! Buttati!
E così mi buttai.
Mentre percorrevo le scale in discesa, sino alla lavanderia, mi stringevano la mente tutte le considerazioni fatte i giorni precedenti in materia di salto, agitando ancora di più il mio percorso di redenzione. Il pensiero più ridondante e insistente riguardava quella sensazione che si prova quando, dopo aver tentato qualcosa, qualsiasi cosa, ci si rende improvvisamente conto della malriuscita dell’operazione. Ci si sbilancia, si ripercorre mentalmente il maledetto errore, analizzandolo in tutte le sue sfumature di significato, si prende coscienza della propria paura.
Ma io dovevo buttarmi, dovevo necessariamente saltare; così saltai.
Di fronte a me (fu un attimo) la lavanderia, con la sua porta di ferro sgarrupata che tratteneva a stento i suoi segreti.
Aprendola diventava tutto quanto poco; ogni cosa dell’universo era nulla verso quella decisa, ripugnante, lebbraiola e crudele messa in scena di maleodoranti odori. In un infinito secondo il naso s’ impregnava di ogni schifo lì presente.
Nemmeno io sapevo, nemmeno io avevo compreso: lì vi era tutto ciò che consisteva nel magnifico ‘salto’. Restare sull’orlo di quell’ingresso, assaggiare per poco tutto il brutto della vita significava purificare non i nostri peccati, bensì la nostra essenza; essere da quel momento in poi tutto ciò che sei.
Un qualcosa.

Un qualcosa?!?
No…questa storia non può funzionare, che cos’è il ‘salto’?
Non c’entra nulla un racconto su un salto con l’essenzialità. Devo ricominciare, ma devo partire da un altro punto di osservazione. S’era rimasti alla zattera, con le mani per remare, di settembre poi; anzi, Settembre. La cornice temporale è sempre presente e importante in un racconto breve, ma soprattutto Essenziale.
Settembre.
Io. P. Pietro. Bongo. Pierpappa. Angelo.
Alla scala B, proprio lì di fronte, si giocava a Uno. Il gioco più essenziale della storia.
Pierpappa mangiava, tanto, come al solito. Lo si chiamava Pier-pappa per via della sua incontenibile insaziabilità, accompagnata da una malcelata incapacità ad abbinare pietanze in maniera commestibile.
Tutti noialtri invece si mangiava essenziale; colazione, pranzo, merenda, cena, senza che ci si spettinasse un capello. Così, essenziali, decisi, calcolati.
Cambierei a questo punto anche lo scenario: Brescia è una città modesta e caotica, contraddittoria, piena di rotatorie. Poco essenziale.
Facciamo Rò. Provincia nebbiosa di Milano. Non ho la più pallida idea di come sia Rò, ma è il nome più essenziale che mi sia affiorato dalla memoria.
Rò, Settembre, scala B, condominio Bridge (che vuol dire ponte). Ma senza nessun ponte in nessuna lavanderia, che già abbiamo capito essere una situazione non adatta al nostro racconto di breve essenzialità.
Si stava lì e si parlava. Di cosa? Di salti no, di lavanderia nemmeno, di Essenzialità, ma non vorrei risultare ridondante. Facciamo che si parlava di cantanti gallesi sull’orlo dei settanta che mantengono comunque stile e una grande, profonda voce. Si stava lì e si desiderava, essenzialmente, di poter un giorno accarezzare il sogno di essere cantanti mostruosi. In Galles.
Certo, come se il Galles fosse meglio della scala B di fronte alla quale consumavamo la nostra serata! Non può funzionare…niente Galles, niente cantanti dalla voce potente.
Dunque si stava lì. Si stava lì e si era essenzialmente essenziali.
Poi uno di noi attaccò con una storia. La storia di un piccolo esserino, un omuncolo dalle braccia troppo lunghe per le sue gambe corte, che quasi poteva camminarci con le braccia che si ritrovava, poverino. Questo omuncolino abitava nei sotterranei di una città grandissima, con palazzi di cinquemila piani e luci a tutto spiano, taxi volanti e roboanti, metropolitaniche strade a quaranta corsie. Usciva di rado dalla sua tana, solo per bersi un caffè all’angolo della trentesima strada o per comprare il giornale, di fronte alla stazione della metro blu.
Viveva così la sua vita, nel silenzio sottostante il caos, di cui assaggiava ben poco. Passava il suo tempo a desiderare di essere come gli altri, tutti gli altri, quelli lassù.
Odiava i cantanti gallesi, secondo lui erano troppo profondi di voce.
Capitò una volta, scavalcando un piccolo muretto che separava lui dal resto del mondo, segnando il confine con il suo solitario sistema di pianeti, che incontrasse una piccola omuncola.
Si guardarono.
Si guardarono di nuovo, più in profondità, poi lui disse a lei: - Mi sa che hai le braccia un po’ troppo lunghe, signorina!-

Ma che diavolo di storia è?!?
Dove sono i mostri paurosi, gli alieni, i politici corrotti e gli alieni??
Gli alieni!! Sono fondamentali in una storia…soprattutto se la storia deve essere essenziale.
Voglio dire, se una storia vede al suo inizio una civiltà tranquilla, ordinata, sconvolta poi dall’arrivo di migliaia di orribili e crudeli alieni che vogliono sottomettere l’umanità intera e conquistare il pianeta, allora questa storia sarà essenziale.
Perché? Vi chiederete.
Perché se in un mondo bello e giusto, improvvisamente le cose non sono più giuste, ma sbagliate, contorte, finte, allora si rappresenta l’essenzialità della storia umana.
Da uomo in funzione della Natura, suo servo, a Natura serva dell’uomo.
Cambiamo allora storia. Niente più scala B, nessun settembre qualsiasi, nessun personaggio inutile.
Questa mia nuova storia Essenziale è un mostro di Essenzialità.
Questa storia nuova ha due personaggi, solo due: l’umanità e la Natura.
Essi vivevano in pace. Poi l’uomo iniziò a sottovalutare il loro rapporto, sfruttando Natura in tutti i modi possibili, la maggior parte dei quali fatti di dolorose rinunce.
Ci fu sempre meno ossigeno, meno acqua, meno animali; le persone iniziarono a morire di fame, a farsi le guerre per le religioni, per il petrolio, per l’acqua, per medicine che servivano a curare malanni causati dalle guerre stesse.
Natura soffriva, e con lei l’umanità.
Il prezzo delle rinunce e dello sfruttamento non tardò ad arrivare sul conto di entrambi.
Fu una guerra combattuta solo dall’uomo, contro se stesso, contro la sua natura, a convincere gli alieni a impossessarsi di tutto quanto, a stringere le catene ai polsi degli uomini e degli alberi rimasti, a conquistare il pianeta.
Gli alieni estirparono la vita, piano piano, un po’ per volta.
Essenziali, gli alieni.
Essenziali come deus ex machina.